martedì 20 dicembre 2011

Sorrisi

Avrò un anno, fra pochi giorni. Ancora non ho imparato a camminare, ma a restare in piedi, questo sì, senza appoggiarmi e senza cadere: da quadrupede a bipede, l'evoluzione dell'uomo in nemmeno dodici mesi. 
Però, papà è sempre sorpreso dai miei sorrisi, più che da progressi come quelli appena detti. Li descrive, a seconda dei casi, come ironici, imbarazzati, a volte tristi e, ovviamente, divertiti. Insomma, tutta la gamma possibile degli stati d'animo che, quando ci si dimentica di piangere, si può esprimere con una forma apparente di gioia.
D'altronde, ridere e piangere non sono due manifestazioni opposte, tipo il nero e il bianco, e nemmeno le classiche due facce della stessa medaglia. No, riso e pianto sono soltanto due possibilità sulla stessa, unica faccia. E, fintanto che potremo continuare a ridere anche per il dolore, come a piangere anche per il piacere, nessuno, su questo, potrà darmi torto.
E così, a quasi un anno di età, sto in piedi e rido guardando le facce di chi ho intorno. A volte, chi vedo di fronte a me sono io stesso, quando mi osservo allo specchio. E so bene, anche se non è affatto scontato, che quel bambino che ho davanti e che fa i miei identici gesti non sono altri che io. 
Altre volte però, quando lo sguardo diventa troppo insistente, sento la distanza fra me e lui aumentare fino a rendermi incapace di riconoscere perfino il sorriso di quel volto tanto familiare.

lunedì 21 novembre 2011

Una fotografia sul mio lettino

C'è una fotografia, proprio sopra il mio lettino. E' stata scattata quasi tre anni e mezzo fa e ritrae mio fratello all'età di poco più di un anno, età che avrò anch'io fra qualche mese. 
In quella foto, Dodokko ha un'espressione sorridente, addirittura entusiasta e piena di soddisfazione per il ciuffo d'erba appena strappato da un prato. I suoi lineamenti non sono più quelli di un neonato, ma quelli appena accennati del bambino che diventerà.
Ma non è soltanto questa transizione dell'aspetto fisico, dal neonato al bambino, a colpirmi, ma anche quella, inversa e ricorrente, dal bambino al neonato: per un anno quella foto sopra al mio lettino ha rappresentato per me addirittura il volto dell'adulto. E adesso che mi appresto a compiere dodici mesi, inversamente, l'età di quel bambino va diminuendo, i suoi lineamenti si ammorbidiscono e alcuni spigoli tornano a essere rotondi.
E' così: andiamo e torniamo, anche senza mai muoverci da certi posti. Questione di prospettive, di punti di partenza e termini di paragone.

domenica 20 novembre 2011

Io ti parlavo ma tu dov'eri?

Io lo so bene, che adesso per te è cosa strana questa mia improvvisa voglia di stare con te, di stringerti per impedirti di andare via. Non è, il mio, un comportamento nato dal nulla: ho sempre avuto questo desiderio naturale di restare insieme a chi mi da sicurezza. 
La differenza con prima è che ora so esprimere, con il pianto ma anche con le mani e le braccia, ciò che sento. Anche se nulla possono le mie forze di fronte a scelte che non so comprendere e spesso devo accontentarmi soltanto di indugi e di qualche carezza in più.
Per farmi capire, ho imparato a fare ciò che fanno gli adulti quando non sanno parlare e, allo stesso tempo, non vogliono starsene fermi e muti, rassegnati a non esprimersi. 

lunedì 7 novembre 2011

Stupore è un sospiro

Più delle sette meraviglie e molto più che se mi trovassi, io così piccolo, ai piedi dell'Everest: è impossibile cogliere l'immensità nel suo insieme. Rimane lo stupore di fronte alla scoperta delle cose quotidiane, un sospiro che toglie il fiato. Un cassetto finalmente aperto, un tasto che si stacca dal computer, l'unghia di un dito di papà nella quale infilo la mia, l'arrivo sempre inatteso di chi voglio vedere, un suo gesto brusco e che mi fa ridere, un'immagine televisiva, un pezzo di pane trovato sul tavolo, una fetta di mela aspra e dolce e che mi fa rabbrividire. 
E, ancora, la soddisfazione per il traguardo appena raggiunto di riuscire ad alzarmi tenendomi al tavolino e quello, ancora più difficile, di tornare a sedermi senza cadere. 
Stupore è un sospiro che nasce dopo una fatica appena compiuta o dopo esser passati attraverso mille frustrazioni. Stupore è una tenda che si apre dopo aver celato troppo a lungo meraviglie che non poteva più nascondere ed eccole qui, improvvisamente svelate, snocciolate una a una, giorno dopo giorno, nella quotidianità di questi giorni che quotidianità ancora non è diventata. 
Stupore è ogni rivelazione a cui assisto, finestre senza tende, vetri luminosi che si affacciano verso l'esterno e non si aprono semplicemente contro il buio di un appartamento. 
Questi occhi nuovi con cui guardo e che non potrebbero nulla se non fossero la proiezione stessa di me negli oggetti che osservo.

lunedì 31 ottobre 2011

Esplorando gattonando

Ora che ho imparato a farlo, me ne vado in giro per la casa - la casa che è il mondo - gattonando sulle mie quattro zampe. Apro cassetti di comò e tiro fuori tutto ciò che c'è dentro: bavaglini, magliette, calzini e pantaloni. Come un gatto equilibrista, mi arrampico sulle gambe delle sedie e cado all'indietro, a volte facendomi male. 
Come per chi va in mare a esplorare, non sempre le acque sono calme, ma succede che ogni tanto mi colga la tempesta. E per mettermi al sicuro mi basta urlare e piangere che qualcuno arriva subito a raccogliermi e a tenermi in braccio. 
E così, in un attimo, il sorriso ruba il posto alle lacrime. Come il sole, quando asciuga ogni goccia di pioggia sulla strada e all'improvviso rischiara il cielo cupo e volta una giornata iniziata male nel verso giusto.

giovedì 20 ottobre 2011

Emozione è un respiro

Emozione non è una parola, ma un respiro. E' un battito, un salto del cuore. E' il sangue che palpita e avvampa il volto in un secondo. Emozione è l'aria di cui abbiamo fame e sete, quando siamo davvero affamati e assetati.
Emozione è il brivido dell'acqua gelata e lo scomporsi senza controllo del torace nel riprendere fiato. Emozione è l'urlo improvviso, mai pensato, né tanto meno mai previsto o ipotizzato.
Emozione è il pianto irrefrenabile e che non cessa mai, neppure dopo che è terminato. Emozione sono i singhiozzi intrattenibili, l'eco infinita di un dolore.
Emozione sono questi due bambini, talmente inermi e sensibili da saper emozionare perfino le cortecce morte degli alberi. 
Questi vecchi che non possono fare altro che osservarli da lontano. Da chilometri di distanza, ere geologiche, anche se sono a due centimetri soltanto dal loro respiro.

lunedì 10 ottobre 2011

Adesso so dire "ciao"

Forse papà non ci aveva ancora pensato che io parlo. Oppure lo aveva fatto: infondo anche i versi che emetto sono parole...talvolta perfino poetiche. Ma ciò che oggi intendo con "parole" è la capacità di ripetere un suono ascoltato anche senza legarlo a un significato. 
Ciò che facevo prima, invece, era emettere miei inediti e personalissimi versi, senza averne mai prima ascoltati di simili. In queste parole però erano presenti dei significati...a voi il compito e la libertà di decifrarli e di capirmi.  
Ebbene, adesso so dire "ciao", anche se la parola che viene fuori dalla mia bocca e un po' diversa da quella che dicono gli altri. Chi mi sta intorno e mi dice "ciao" sa dirlo esattamente come è scritto, mentre a me, in risposta, esce un "da-da-o", piuttosto che un "de-de-o". 
Il tutto accompagnato con un gesto della mano, questo sì, fatto come si deve: le dita che si aprono e si stringono a pugno, su e giù. "Da-da-o", "de-de-o".

giovedì 29 settembre 2011

Il giovane gambero

Adesso comincio a gattonare, ma all'indietro, come un (classico) gambero e non come il protagonista, poco ortodosso, della storia che segue e che papà mi ha raccontato. Una cosa però ci accomuna, a me e al crostaceo, ed è il fatto di andare controcorrente...Ciascuno di noi deve trovare, come può, la propria strada nella vita.

Un giovane gambero pensò: "Perché nella mia famiglia tutti camminano all’indietro? Voglio imparare a camminare in avanti, come le rane, e mi caschi la coda se non ci riesco".
Cominciò ad esercitarsi di nascosto, tra i sassi del ruscello natio, e i primi giorni l’impresa gli costava moltissima fatica. Urtava dappertutto, si ammaccava la corazza e si schiacciava una zampa con l’altra. Ma un po’ alla volta le cose andarono meglio, perché tutto si può imparare, se si vuole.
Quando fu ben sicuro di sé, si presentò alla sua famiglia e disse:
- State a vedere.
E fece una magnifica corsetta in avanti.
- Figlio mio, - scoppiò a piangere la madre,- ti ha dato di volta il cervello? Torna in te, cammina come tuo padre e tua madre ti hanno insegnato, cammina come i tuoi fratelli che ti vogliono tanto bene.
I suoi fratelli però non facevano che sghignazzare.
Il padre lo stette a guardare severamente per un pezzo, poi disse: - Basta così. Se vuoi restare con noi, cammina come gli altri gamberi. Se vuoi fare di testa tua, il ruscello è grande: vattene e non tornare più indietro.
Il bravo gamberetto voleva bene ai suoi, ma era troppo sicuro di essere nel giusto per avere dei dubbi: abbracciò la madre, salutò il padre e i fratelli e si avviò per il mondo.
Il suo passaggio destò subito la sorpresa di un crocchio di rane che da brave comari si erano radunate a far quattro chiacchiere intorno a una foglia di ninfea.
- Il mondo va a rovescio,- disse una rana, - guardate quel gambero e datemi torto, se potete.
- Non c’è più rispetto, - disse un’altra rana.
- Ohibò, ohibò, - disse una terza.
Ma il gamberetto proseguì diritto, è proprio il caso di dirlo, per la sua strada. A un certo punto si sentì chiamare da un vecchio gamberone dall’espressione malinconica che se ne stava tutto solo accanto a un sasso.
- Buon giorno, - disse il giovane gambero.
Il vecchio lo osservò a lungo, poi disse: - Cosa credi di fare? Anch’io, quando ero giovane, pensavo di insegnare ai gamberi a camminare in avanti. Ed ecco che cosa ci ho guadagnato: vivo tutto solo, e la gente si mozzerebbe la lingua piuttosto che rivolgermi la parola. Fin che sei in tempo, da’ retta a me: rassegnati a fare come gli altri e un giorno mi ringrazierai del consiglio.
Il giovane gambero non sapeva cosa rispondere e stette zitto. Ma dentro di sé pensava: "Ho ragione io".
E salutato gentilmente il vecchio riprese fieramente il suo cammino.
Andrà lontano? Farà fortuna? Raddrizzerà tutte le cose storte di questo mondo? Noi non lo sappiamo, perché sta ancora marciando con il coraggio e la decisione del primo giorno. Possiamo solo augurargli, di tutto cuore: - Buon viaggio!

[Gianni Rodari, Favole al telefono, Einaudi, Torino 1983, pp.48-49]

giovedì 15 settembre 2011

Nostalgia

Il mare non è che un contenitore, avvolgente e leggero, che trattiene e che lascia liberi di muoversi, nello stesso tempo. E' una madre dalla quale far ritorno e che ti aiuta, con amore e comprensione, a restare a galla. 
E' per questo motivo che, al termine di un viaggio e al culmine della stanchezza, quando vedo questo enorme specchio azzurro, in presenza di questa assoluta precedenza, cessa qualsiasi fame e ogni minimo accenno di sonno. La nuova urgenza è toccare l'acqua, immergersi e perdersi. 
Il mare è il passato che torna, la mia prima forma di vita, buia e misteriosa, precedente a questa attuale. 
E' la nostalgia, il dolore che causa ogni volta il ritorno a ciò che si è amato a da cui abbiamo ricevuto il medesimo amore.

venerdì 19 agosto 2011

Amare con i denti

Ho un dentino, spuntato appena due settimane fa. Il mio primo incisivo, l'inferiore destro. E adesso mordo anche con un dente, non più soltanto con le gengive. Porto alla bocca tutto ciò che voglio mangiare e conoscere. Mordo, assaggio: mi approprio di pezzi di mondo. 
Assaporo la vita. La mastico senza essere ancora in grado di consumala. Guardo e qualche volta mi arrabbio se ciò che vedo e mi piace non viene da me. E, appena arriva, quel che faccio è scoprire che gusto ha la cosa che desidero, che appetisco e amo.    

lunedì 8 agosto 2011

Il mio primo bagno in mare

Ecco il mare, il mio primo bagno. 
L'acqua battuta dalle braccia, il corpo che galleggia come quello di una foca. 
Il mio aeroplanino gonfiabile, dove le gambe entrano appena, con il volante di plastica su cui ho appoggiato le mani, e il clacson che non suona. 
Ecco il sorriso, il bagliore del sole riflesso sullo specchio dell'acqua, il brivido di freddo appena si è alzato il vento.
Ecco il sonno, allontanato il più possibile e sopraggiunto ora, prepotente, mentre papà mi asciuga. 

martedì 5 luglio 2011

Io vivo di emozioni

Lo dico con sicurezza: io vivo di emozioni.
Emozioni belle e brutte, come tutti.
Ma una cosa hanno in comune
Le mie emozioni non le tengo mai celate.
Le grido le sussurro le sospiro.
Con la voce con gli occhi con le mani
Col pianto e col sorriso
Col dolore e con la gioia di vivere.

venerdì 17 giugno 2011

Indice di gradimento

Sono io stesso che canto la mia ninnananna e non papà. 
In braccio a lui, che mi dondola per addormentarmi quando sono stanco, eseguo una cantilena composta da una vocale sola: la 'a', mentre i miei occhi sono già chiusi nella piega del suo braccio destro, a cercare il sonno ancor prima della mia voce. 
Poi di colpo taccio per entrare nel non-luogo della vita, il posto della dimenticanza e dell'incoscienza, dove mi basta soltanto respirare per rimanere immobile per ore.
Ma ieri, che ero in vena di scherzi e di sperimentazioni, prima di addormentarmi ho voluto vedere che effetto facesse la mia canzone su chi la stava ad ascoltare.
Coricato fra le braccia di papà, ad ogni 'a' prolungato voltavo la testa verso quella del mio genitore per osservarne la reazione. Poi tornavo a chiudere gli occhi contro il suo gomito interno e a cantare, quindi nuovamente a girare il capo per incrociare altri occhi che mi sovrastavano. 
Sono andato avanti così, per diversi minuti, per saggiare l'indice di gradimento della mia musica.

sabato 11 giugno 2011

Di giorno gli occhi

E poi gli occhi 
piccoli soli accesi
di giorno 
a cercare una vicinanza 
che nel buio è corpo invece.

Gli occhi e anche il grido
che dice "guardami"
con un monosillabo
con uno sguardo
Con un sorriso quando ti giri.

lunedì 6 giugno 2011

Vicini

Dove non arrivano le parole c'è il corpo. 
Nella cecità notturna desidero una presenza. 
Come un sonnambulo cerco una sponda sicura. 

Senza parlare e senza nemmeno camminare. 
Perché non so fare né l'una né l'altra cosa. 
Nell'oscurità sono un cieco in cerca d'appiglio. 

Ho bisogno di un corpo e di un respiro. 

martedì 31 maggio 2011

Non meravigliarti

Non meravigliarti se ancora non so chiamarti papà e se ti sorrido appena ti rivedo. 
Non ti chiedere se sono contento perché è evidente che io lo sia. 
Ho due mani grandi e mi servono per afferrare ogni cosa che attiri la mia curiosità.
E se le mani non bastano ho il mio sorriso per raggiungerti.

lunedì 23 maggio 2011

Certo che non siamo le nostre parole

Certo che "non siamo le nostre parole". Se così fosse, io sarei un ammasso di versi, di urla e di sorrisi. Ciò che siamo invece è l'interpretazione che gli altri hanno delle parole e di questi miei versi, delle mie urla e dei miei sorrisi. Interpretazioni: ovvero opinioni, ossia quel che gli altri credono che certe espressioni vogliano dire. 
L'espressione sul mio viso che papà definisce "sorriso", così come il pianto, sono la sua interpretazione dei miei stati d'animo. Allo stesso modo, quando lui gioca con me, io mi diverto perché so che lui vuole divertirmi. E' in qualche modo un gioco delle parti, una specie di convenzione, proprio come quando faccio un sorriso e tutti sono d'accordo con l'affermare che sto sorridendo.

mercoledì 18 maggio 2011

Ieri ero in braccio a mamma sul balcone

Gli occhi non sono lo specchio dell'anima e nemmeno il riflesso di ciò che si pensa. Gli occhi rispecchiano semplicemente ciò che guardano. Come la pozzanghera che vede il palazzo che ha di fronte. Come il mare che si tinge di latte al mattino e d'arancio alla sera. 
Gli occhi sono l'interpretazione visiva di quel che si ha davanti. Sono un invito ad attraversare la strada, il biglietto per compiere un viaggio, il primo passo verso il futuro.
Ieri ero in braccio a mamma sul balcone a godermi il contrasto fra il sole già caldo e la brezza fresca della primavera. 
I miei occhi erano verdi di foglia, completamente dipinti dalla fronda del pioppo davanti casa.

lunedì 16 maggio 2011

Papà mi guarda e io rido

E' una faccia simpatica quella di papà. Appena si gira e mi guarda, aggancio i suoi occhi e rido. Ogni mattina e ogni sera, dal passeggino dove sto disteso, seguo con lo sguardo questa persona che mi si muove attorno, indaffarata, e che ogni tanto mi lancia un'occhiata. Io aspetto questo momento nel quale i nostri sguardi si incrociano e tutte le volte che papà mi guarda è una conferma delle sue attenzioni verso di me, una risposta affermativa alle mie aspettative. 
Papà mi guarda e io rido, senza una ragione, forse semplicemente perché papà mi sta simpatico. 
Mi guarda e io rido, con le poche, e con tutte, ragioni del mondo.

martedì 10 maggio 2011

"Forse gli stanno spuntando i denti"

"Forse gli stanno spuntando i denti", dicono i miei genitori sentendomi urlare. Essi non non conoscono l'origine del mio dolore e fanno ipotesi avvalorate dalle 'diagnosi' del pediatra. Può darsi che ciò che affermano sia vero, ma resta questa generale anomalia di un effetto palese che ha cause oscure. 
Come accade per qualsiasi altro grande dolore, che ha origine nelle profondità più remote e inaccessibili dell'animo umano e che determina il comportamento di una persona, è inevitabile e pazzesco che si scambi l'apparenza con l'essenza e che si parta dalla prima per comprendere la seconda.
Ma tant'è: siamo esseri umani, con occhi per vedere e orecchie per sentire soltanto ciò che ha evidenza, solamente quel che ha voce.

martedì 3 maggio 2011

Adesso piango meno

Adesso piango meno e riesco a trovare degli elementi di distrazione dove rivolgere il mio sguardo e disperdere la tensione. Non solo: ora riesco perfino ad afferrare alcuni oggetti che mi compaiono di fronte.
La mia mira sta diventando infallibile e per spostare le cose adopero perfino i piedi. Sorrido spesso e piango poco, soprattutto al mattino. 
Quando mi sveglio sono sempre di buon umore.

giovedì 21 aprile 2011

Le mani per parlare

Sto imparando a conoscere il mondo, l'universo circostante e limitato che ruota attorno al mio sguardo, con i miei occhi mobili. Seguo oggetti che si spostano davanti a me, afferro visi, decifro risposte. Tasto con le mani, graffio con le unghie, stringo con le dita: prendo.
Prendo pezzi di mondo e li tengo stretti con tutta la mia piccola forza. Emetto sillabe che si uniscono alle cose: parole che prendono forma...la forma che poco prima apparteneva agli oggetti soltanto.
Distendo le braccia, muovo le mani, articolo le dita: anche questo è un modo di parlare.  

mercoledì 20 aprile 2011

Quando parlo, domando una risposta

Adesso, quando parlo, domando una risposta.
Anche se non vuol dire niente, anche se chi mi sta davanti non ha capito e se, al limite, dovesse rispondere, al mio verso, con un suo verso.
La stessa intonazione, la stessa frequenza, la stessa durata: è così che un verso diventa parola.
Ed è così che più versi divengono dialogo.
Mi accontento di questo, per ora: del concerto di poche sillabe.

martedì 5 aprile 2011

In che tempo ci incontriamo io e papà?

E se il presente abitasse nel passato...allora in quel presente-passato saremmo soli, nella sola compagnia di persone che non ci sono più.
Papà e il suo presente assente, io e il mio presente senza tempo. Papà e i suoi oggi fluidi: passaggi che scorrono dal passato al futuro, saltando, come fa una cascata, ogni presente. Io e tutti i miei secondi: la fila degli istanti, la processione dei minuti, ogni momento che va via, ma che resta...anche.
Se le cose stanno così, in che tempo ci incontriamo io e papà?
Io non ho una storia, non ho un trascorso, non ho memoria. E non immagino neanche di avere un futuro, non so se esista il domani, né che domani sarà un altro giorno.
Per me, passato e futuro sono una parola sola: il presente. Un tempo senza durata, ma non per questo eterno.
Un tempo che assomiglia a un orologio fermo, senza lancette.

mercoledì 30 marzo 2011

Ogni volta rinasco

Io non sono nato una volta soltanto, tre mesi fa. Io nasco e rinasco ogni giorno e ogni ora, ogni volta che mi sveglio. Tutte le volte che sorrido, e questo è ovvio. Ma anche tutte le volte che piango, che piango forte, che piango ancora più forte di quella volta lì, tre mesi fa, il giorno del mio primo pianto.
Ogni volta che piango vado incontro alla vita, a questa vita tremendamente già dolorosa e talmente meravigliosa. Ogni volta che piango e che incontro gli occhi di chi mi sta guardando e non capisce, io rinasco e so, invece, che c'è poco da capire.
So bene che c'è tanto, ancora tanto di cui stupirsi. 
E mi basta questa sola certezza senza alcuna verità. Mi basta il brivido che avverto quando esco dall'acqua, dopo aver fatto il bagno, e che mi fa gridare. Mi basta il morso della fame e quello del sonno.
Per rinascere mi bastano questi soffitti cangianti, quando mi sposto da una stanza all'altra. I colori che mutano quando qualcuno muove la tenda. E i cieli sopra di me, ogni istante diversi e non troppo lontani, tutte le volte che esco di casa. E le ombre e le luci, nell'aria ancora fresca e che filtrano fra le foglie degli alberi.

giovedì 24 marzo 2011

Nello stesso tempo

Papà mi ha parlato di alcune teorie che considerano il tempo ora come elemento fisso, ora relativo, ora come mezzo per percepire il mondo, ora come illusione. Mi ha detto infine che il mio tempo è un presente eterno.
Non sono d'accordo con questa sua idea, perché parlare di eternità significa prima pensare alla durata del tempo e poi - soltanto successivamente - escluderla. E anche cancellare assolutamente la fine del tempo vuol dire - nostro malgrado - far riferimento ad essa.
Il mio tempo invece non ha punti di riferimento, non ha durata, dunque non è eterno, né tanto meno finito. In una parola, io non mi faccio mai le domande "quanto" e "quando". Io vivo e basta. E quel che succede attorno a me, nel mio spazio e nel mio tempo non mi riguarda.
Stamattina, prima di andare al lavoro, papà ha chiuso le persiane. Ha chiuso fuori la prima luce primaverile che si affacciava nella stanza. Papà indugia ancora nell'inverno appena trascorso mentre i suoi occhi già vagano fra i giorni scuri che verranno di nuovo, fra nemmeno un anno. 
Fa così papà: salta le stagioni, ma lo fa a modo suo e non come faccio io, che non mi pongo domande. Lui vive in un tempo passato e con il pensiero eternamente proiettato al futuro: se per lui il mio è un presente eterno, per me il suo è un presente assente.

lunedì 21 marzo 2011

Certo che staremo sempre insieme

Non serve saper parlare per dire ciò che si prova: io dico tutto con i miei occhietti tondi, col mio sorriso e con qualche verso. Il mio papà mi ascolta a lungo, quando sono sveglio e dopo che ho mangiato. Lui sa che in questi giorni sto bene e che sono felice. 
Stamattina presto papà mi ha fatto giocare all'aereo sul letto: mi ha sollevato in aria più volte tenendomi per i fianchi e mi ha fatto atterrare sulla sua pancia. Ci siamo divertiti tanto e poi ci siamo addormentati insieme. Abbiamo chiuso gli occhi e abbiamo dormito per un'altra mezz'ora. Insieme...
Ieri ho sentito mio fratello chiedere a mio padre: "Papà, noi staremo sempre insieme, vero?". E lui lo ha rassicurato: "Certo, cosa ti fa pensare il contrario?". Però nella sua voce ho avvertito qualcosa di simile alla debolezza, un calo del tono, una perplessità e una tristezza di fondo. Sono sensazioni, le mie, che non so dire ma che in ogni caso avverto.
Per me l'eternità è adesso. E' qui, fra le pieghe del letto. Fra le braccia di papà, nelle pause fra un sonno e l'altro. Nei miei sorrisi.

mercoledì 9 marzo 2011

Manuale d'uso: la danza

E' notte fonda quando inizia la danza e succede ogni volta che comincio a svegliarmi: appena inizio a muovermi, a contrarre e a distendere gli arti, a emettere i miei tipici urletti, papà mi prende alla svelta in braccio, cercando di prevenire il pianto imminente e dirompente, mi solleva dalla culla e mi mette sul suo cuscino, la testa contro la sua e il ciuccio ben assicurato in bocca. Il suo scopo immediato è di farmi riaddormentare prima che sia troppo tardi, ovvero prima che io esploda in grida inconsolabili. Il suo fine ultimo è invece quello di ritardare le mie poppate, allungando i tempi di attesa fra le une e le altre. 
E così, ogni due ore circa e ogni notte, io e papà balliamo sul letto una danza la cui coreografia è la seguente: io sputo il ciuccio e lui me lo ridà; io giro troppo il volto verso il cuscino e lui mi rimette in posizione semi supina; io gli faccio un sorriso inatteso e anche lui - vinta a quel punto la stanchezza - mi sorride. 
Il tutto si protrae sempre per almeno un'ora, cioè finché papà non cede e mi prepara il latte. 

lunedì 7 marzo 2011

Manuale d'uso: l'urlo

Molto tempo fa, prima che nascessi, papà aveva un cane di nome Skipper. Era un incrocio - mi ha raccontato - fra un segugio e un cirneco, di taglia media e dalla corporatura snella. Aveva un bel colore ruggine, un petto carenato da corridore e due orecchie pendenti, che sventolavano a ogni movimento della testa e che, durante la corsa, si appiattivano contro il cranio. Però il suo tratto distintivo non era l'aspetto fisico, ma il carattere: Skipper era un cane nevrotico, capace di parlare - non solo di abbaiare - con chi lo sapesse ascoltare. Non obbediva mai e papà non se la prendeva con lui per questo, perché aveva capito che la sua era una natura da spirito indipendente, se non addirittura ribelle, e che quindi non c'era niente da fare. Papà - mi ha confessato - un po' lo ammirava per come era fatto e lo rispettava come si rispetta ogni creatura libera.
Se c'era qualcosa che voleva, Skipper urlava come un ossesso. Se papà lo rimproverava, rispondeva risentito con una serie di guaiti. Se papà - a quel punto per gioco - aggiungeva qualche altra parola, Skipper si mostrava in grado di mandarcelo, con un semplice sbuffo. In queste discussioni con il suo padrone il cane voleva sempre avere l'ultima parola. Inoltre, era spesso dispettoso, lagnoso per un nonnulla, irascibile con qualsiasi altro cane di sesso maschile e ovviamente con tutti i gatti possibili e immaginabili. Ce l'aveva con i motorini e i preti ed era un razzista che odiava tossicodipendenti ed extracomunitari. 
Papà potrebbe narrare mille episodi in cui Skipper si è distinto per le sue doti, ma ciò di cui voglio parlarvi io è un'analogia fra il mio modo di urlare e quello del suo cane. E ve lo voglio raccontare perché di recente ho sentito dire a papà - testualmente - che "non serve a nulla gridare" e che "le cose si possono chiedere con calma". Beh - fatemi dire -, non è la stessa cosa e non è vero che con la gentilezza si ottiene tutto. E' urlando con la massima forza che ho nei polmoni che io vengo accontentato, quando ho fame, quando ho sonno e voglio essere cullato, quando ho caldo, quando ho male alla pancia, quando ho sporcato il pannolino, quando voglio stare in braccio. Proprio come faceva Skipper, che con un paio di abbaiate era in grado di mettere in fuga cani ben più grandi di lui e che con qualche guaito riusciva a ottenere tutto ciò che voleva da mio padre. E se ci riusciva lui... 

giovedì 3 marzo 2011

Manuale d'uso: il naso

Il naso non serve soltanto per respirare. L'ho capito grazie a quello di papà, che lui utilizza per tenermi fermo il ciuccio quando dormo con lui nel suo letto, con la testa appoggiata sul suo stesso cuscino. Succede spesso che mi cada e che lo perda nel sonno: questo fatto mi fa svegliare, arrabbiare e piangere e costringe i miei genitori a correre ai ripari, a notte fonda, cercando di recuperare nell'oscurità il ciuccio, che spesso va a finire in posti improbabili e talvolta lontanissimi dalla mia bocca, compiendo traiettorie inimmaginabili. 
A volte viene rinvenuto ai miei piedi, altre sotto il cuscino, altre ancora per terra. Di qui la decisione: dato che tener fermo il ciuccio, a lungo, con la mano, sarebbe un'ipotesi improponibile, anche perché la presa si allenta necessariamente se si vuole anche dormire, papà ha pensato di utilizzare il suo naso, che è un po' più stabile, all'uopo.
E così, da qualche giorno, mi addormento con la faccia di papà schiacciata contro la mia e con quest'ultima immagine nei miei occhi: le sue palpebre abbassate, sfocate per la troppa vicinanza al mio sguardo, e il suo respiro, che è quello di chi già dorme profondamente e che dà il ritmo al mio.

martedì 1 marzo 2011

Hai sbagliato papà hai ragione

Io piango la notte, quando ho fame o se mi fa male la pancia. Allora i miei genitori mi danno latte, bevande e sciroppi concentrati alla camomilla e al finocchio, fermenti lattici e gocce per i disturbi intestinali. Poi mi cambiano e mi rimettono nella mia culla. 
Se però non mi riaddormento subito, papà e mamma mi mettono nel letto con loro. C'è chi dice che sbagliano a fare così, perché mi abituo male. Qualcuno - poche persone per la verità - è invece favorevole a questo comportamento.
Papà dice che, stando vicino a loro, dormo perché mi sento più sicuro e amato e che non gli importa nulla delle teorie che un giorno affermano una cosa e il giorno dopo la smentiscono. A questo proposito mi ha letto un passo dal libro di Ian McEwan, Bambini nel tempo, che parla di alcune teorie accreditate sull'infanzia negli ultimi tre secoli:
"(Stephen) aveva letto dichiarazioni solenni sulla necessità di fasciare gli arti dei neonati per impedirne il movimento e i possibili danni; sui pericoli dell'allattamento materno e, altrove, sulla sua fondamentale importanza sul piano fisico e superiorità su quello morale; su come l'affettuosità e l'incoraggiamento possono nuocere al bambino; sugli effetti benefici di purghe e clisteri, severi castighi fisici, bagni freddi e, all'inizio del secolo, di costante aria pura per quanto rigido fosse il clima; c'era chi sosteneva che è bene controllare scientificamente gli intervalli fra un pasto e l'altro e chi, al contrario, invitava a nutrire il bambino ogni qualvolta ne manifestasse il desiderio; chi denunciava i rischi di prendere in braccio il piccolo ogni volta che piange - facendolo sentire pericolosamente potente -, e chi sottolineava i rischi dell'atteggiamento opposto, che causa un senso di pericolosa impotenza; l'importanza di una buona disciplina delle funzioni intestinali, con allenamento all'uso del vasino a partire dal terzo mese; la costante presenza della madre giorno e notte, per tutto il primo anno di vita e, altrove, la necessità di ricorrere a balie, governanti, asili nido statali a tempo pieno; le conseguenze fatali di una non corretta respirazione, il vizio di mettersi le dita nel naso e di succhiare il dito connessi all'assenza della figura materna; i vantaggi di un parto tecnicamente sicuro in sala chirurgica e quelli di partorire coraggiosamente in casa nella vasca da bagno; l'importanza della circoncisione e di una tonsillectomia tempestiva; e, più tardi, lo sprezzante abbandono di tutte queste tendenze di moda; la teoria che i bambini debbano essere lasciati liberi di fare tutto ciò che desiderano di modo che possano esprimere appieno la loro natura divina, e quella secondo la quale non è mai troppo presto per forgiare la volontà di un infante; i disturbi mentali e la cecità causati dalla masturbazione, e il piacere e il conforto che essa regala all'adolescente; come l'educazione sessuale passi attraverso riferimenti a girini, cicogne, fatine dei fiori e impollinazione o si acquisisca tacitamente o ancora si apprenda grazie a una schiettezza di termini meticolosa e brutale; il trauma subito dal bambino che vede i genitori nudi, e i cronici turbamenti alimentati da strani sospetti se li vede sempre e solo vestiti; gli enormi vantaggi connessi all'insegnamento della matematica a un bimbo di nove mesi". (Ian McEwan, Bambini nel tempo, Einaudi 1988, pp 76-77).

venerdì 25 febbraio 2011

Papà dov'è?

Dov'è papà, dove è stato in tutti questi giorni, come mai si è fatto vedere così di rado in casa? La mamma mi ha detto che è in ospedale col mio fratellino. E così si è perso i miei sorrisi, che ora faccio sempre più spesso. E anche i miei vocalizzi, che papà non ha ancora mai sentito.
Sì, perché adesso io parlo sai? A modo mio, ma parlo. E ho anche una bella vocina, quando voglio. Non strillo più soltanto, né penso solamente ciò che voglio dire, senza emettere un suono, come facevo qualche settimana fa.
Adesso parlo e mi chiedo e domando: "Papà dov'è?".

lunedì 7 febbraio 2011

Un nuovo giorno

Sabato e domenica sono stato tutto il giorno fuori, a passeggio con mamma e papà. Al mare, al parco, in una piazzetta del centro, a guardare la gente e i bambini giocare per strada e tirarsi i coriandoli di carnevale, a vedere la luce, il sole e a dormire all'aria aperta. Ho goduto dell'ossigeno fresco, della brezza marina, del rumore chiassoso delle persone attorno a me. Mi sono cullato nella giostra dei suoni e dei movimenti nuovi.  
Poi, appena rientrato in casa, ieri sera ho iniziato a piangere un pianto disperato che si è prolungato per quasi due ore. Non avevo parole per dire ciò che sentissi e dove avessi male e il mio unico modo per esprimermi era quello di piangere, lasciando chi mi stava intorno libero di scatenarsi nelle più svariate diagnosi e interpretazioni.
E così i miei genitori hanno pensato prima alle coliche, poi però hanno visto che la mia pancia era sgonfia ma dura, infine hanno ipotizzato che qualche dentino stesse per spuntare prematuramente. Hanno anche immaginato che fosse la troppa aria presa o lo iodio la causa della mia sovreccitazione, ma alla fine ci ho pensato io a porre un freno alla loro fantasia: quando mi sono quietato, all'improvviso, e mi sono assopito di punto in bianco e ho dormito per più di cinque ore di seguito.
Da un momento all'altro in casa è entrata la calma e, mentre dormivo, non facevo altro che prepararmi a vivere un nuovo giorno. Un nuovo, prossimo, giorno di vita, senza attese particolari, senza sapere cosa accadrà e come starò. Come un fiore che sboccia all'alba e si gode i raggi del sole fino al tramonto.

martedì 1 febbraio 2011

La mia prima influenza, il mio primo sorriso

Nella pancia di mamma non mi sarebbe mai accaduto: prendermi questa brutta influenza. Ma non ha senso parlare del passato o di una situazione ideale che non tornerà mai. Dirò soltanto che la febbre è stata un'esperienza 'forte', dove ho potuto mettere alla prova il mio sistema immunitario che - direi - ha retto bene. Ho sofferto, quando la febbre ha sfiorato i 39 gradi, ma poi ho reagito e la temperatura non è più salita tanto. Mi è rimasto soltanto un po' di raffreddore, adesso, che mi fa dormire male la notte e che costringe il mio papà a mettermi delle fastidiose gocce di soluzione fisiologica nel naso e ad aspirare con un tubicino le mie secrezioni nasali.
Ma questo è tutto, fortunatamente, e dunque posso sorridere. Sì, ho sorriso per la prima volta in questi giorni: un bel sorriso senza denti che ho fatto appena mi sono sentito meglio. Con il mio sorriso ho detto "ciao" ai miei genitori e al mio fratellino che stavano aspettando questo momento e che mi hanno guardato come se non mi vedessero da un anno. E ho aggiunto: "Sono guarito".
E loro mi hanno risposto con il loro sorriso felice, di contentezza e di sollievo.

giovedì 20 gennaio 2011

Tempus fugit

Questa storia del tempo è una loro invenzione: un modo, dei grandi, per sistemare le cose. Per dare un ordine cronologico agli avvenimenti, per scandire e avere sotto controllo ogni momento della vita. Per me, invece, il tempo non esiste, non ha alcun valore: non passa, non cessa e non fugge.
Io non direi mai frasi come "non vedo l'ora" o "vorrei che durasse di più" o "quando" o "fra quanto" o "nel frattempo". Per me non esiste né il prima, né il durante e né il dopo, ma esisto Io soltanto, con le mie necessità del momento, hic et nunc, qui e adesso: ho fame e voglio mangiare subito; ho sonno e mi addormento all'istante; ho mal di pancia e urlo. Non c'è altro, per quanto mi riguarda, che il mio bisogno e l'appagamento di esso.
Invece questi vogliono continuamente 'categorizzarmi', secondo schemi temporali che, di volta in volta, sfociano nell'universalità di una regola a cui dovrei adattarmi o, viceversa, nella particolarità di me come individuo che stabilisce norme generali e un canone inedito.
Io sono e resto un individuo con esigenze particolari e del momento: ho fame ora e avevo fame tre ore fa. Ma non è detto che avrò di nuovo fame fra altre tre ore. E non è affatto scontato che prossimamente vorrò bere la stessa quantità di latte della poppata precedente. 
Le tabelle che dicono che dovrei mangiare all'incirca ogni 3 ore e che in questo periodo della mia vita dovrei assumere 110 mg di latte a pasto e che il mio peso dovrebbe aumentare di 150 gr alla settimana, non le condivido e non le approvo. Si tratta di stime medie che non prendono in considerazione le mie esigenze e le mie difficoltà, i miei malesseri e i miei stati d'ansia. Né comprendo deduzioni universali come "ora mangia ogni 2 ore" oppure "adesso assume 130 ml di latte a poppata" soltanto perché le ultime tre volte mi è capitato di fare così.     
Il tempo fugge per tutti tranne che per me e voi lasciatemi dove sono: non stabilite un modello con i miei ritmi, non applicate standard, non adeguatemi a linee generali, a linee guida e nemmeno ai consigli, alle opinioni e alle esperienze degli altri.

mercoledì 12 gennaio 2011

Letto freddo latte caldo

Qui si parla addirittura della possibilità di viziare un neonato di 20 giorni! Ma è semplicemente una necessità, la mia, di voler stare in braccio: per essere consolato per i dolori delle mie coliche, per calmare il pianto dirompente quando avverto i crampi della fame, perché non voglio stare da solo sul lenzuolo freddo di un lettino. 
Vuoi mettere il caldo tepore di un abbraccio?! E' proprio come il latte caldo e nutriente di cui ho bisogno. Eppure c'è già chi si sbilancia con previsioni tipo: "In questo modo non si addormenterà facilmente da solo" oppure "Facendo così, finirà per essere viziato". 
Che dire: c'è gente che ha paura e non ha fiducia nel futuro. E che preferirebbe adottare delle strategie piuttosto che affidarsi al proprio cuore.

lunedì 3 gennaio 2011

Ex utero

Lo so che sono la persona meno adatta a parlarne, ad azzardare - data la mia età -  ipotesi riguardo il momento estremo del passaggio dalla vita alla morte. Mi riferisco a quei pochi minuti o secondi in cui il corpo e la mente transitano dall'una all'altra: è vero che durante il trapasso, anche se il cuore cessa di battere, l'attività cerebrale continua, anche se per un brevissimo lasso di tempo? Ed è vero che gli occhi conservano per un poco l'ultima immagine fotografata e che la luce non si spegne proprio subito? Ed è vero che in quei rapidi frangenti guardiamo la morte in faccia?
Non ho risposte in merito, ma quel che so è che nel passaggio inverso, dal corpo materno alla vita nel mondo esterno, mi porto dietro e tardano a scomparire alcune ombre che appartengono al mio stadio intrauterino. Istanti di tenebra che ancora si alternano, come in una danza, ai sempre più frequenti momenti in cui il colore predomina la scena.
In tali spazi temporali le mie pupille vagano come farfalle fra un sonno e l'altro, nelle pause che sono le mie veglie. Quando sono aperti, i miei occhi possono guardare in faccia la vita e ogni foma di esistenza occupa adesso un posto che era vacante, fino a ieri, nel mio mondo onirico.
Pennarelli nuovi colorano le ombre, il foglio di carta non è più nero, lo sguardo afferra il movimento e lo fa suo. Quando mi sveglio abbandono il buio e mi impossesso della vita, con ogni forza che ho in corpo o semplicemente con un grido.