mercoledì 30 marzo 2011

Ogni volta rinasco

Io non sono nato una volta soltanto, tre mesi fa. Io nasco e rinasco ogni giorno e ogni ora, ogni volta che mi sveglio. Tutte le volte che sorrido, e questo è ovvio. Ma anche tutte le volte che piango, che piango forte, che piango ancora più forte di quella volta lì, tre mesi fa, il giorno del mio primo pianto.
Ogni volta che piango vado incontro alla vita, a questa vita tremendamente già dolorosa e talmente meravigliosa. Ogni volta che piango e che incontro gli occhi di chi mi sta guardando e non capisce, io rinasco e so, invece, che c'è poco da capire.
So bene che c'è tanto, ancora tanto di cui stupirsi. 
E mi basta questa sola certezza senza alcuna verità. Mi basta il brivido che avverto quando esco dall'acqua, dopo aver fatto il bagno, e che mi fa gridare. Mi basta il morso della fame e quello del sonno.
Per rinascere mi bastano questi soffitti cangianti, quando mi sposto da una stanza all'altra. I colori che mutano quando qualcuno muove la tenda. E i cieli sopra di me, ogni istante diversi e non troppo lontani, tutte le volte che esco di casa. E le ombre e le luci, nell'aria ancora fresca e che filtrano fra le foglie degli alberi.

giovedì 24 marzo 2011

Nello stesso tempo

Papà mi ha parlato di alcune teorie che considerano il tempo ora come elemento fisso, ora relativo, ora come mezzo per percepire il mondo, ora come illusione. Mi ha detto infine che il mio tempo è un presente eterno.
Non sono d'accordo con questa sua idea, perché parlare di eternità significa prima pensare alla durata del tempo e poi - soltanto successivamente - escluderla. E anche cancellare assolutamente la fine del tempo vuol dire - nostro malgrado - far riferimento ad essa.
Il mio tempo invece non ha punti di riferimento, non ha durata, dunque non è eterno, né tanto meno finito. In una parola, io non mi faccio mai le domande "quanto" e "quando". Io vivo e basta. E quel che succede attorno a me, nel mio spazio e nel mio tempo non mi riguarda.
Stamattina, prima di andare al lavoro, papà ha chiuso le persiane. Ha chiuso fuori la prima luce primaverile che si affacciava nella stanza. Papà indugia ancora nell'inverno appena trascorso mentre i suoi occhi già vagano fra i giorni scuri che verranno di nuovo, fra nemmeno un anno. 
Fa così papà: salta le stagioni, ma lo fa a modo suo e non come faccio io, che non mi pongo domande. Lui vive in un tempo passato e con il pensiero eternamente proiettato al futuro: se per lui il mio è un presente eterno, per me il suo è un presente assente.

lunedì 21 marzo 2011

Certo che staremo sempre insieme

Non serve saper parlare per dire ciò che si prova: io dico tutto con i miei occhietti tondi, col mio sorriso e con qualche verso. Il mio papà mi ascolta a lungo, quando sono sveglio e dopo che ho mangiato. Lui sa che in questi giorni sto bene e che sono felice. 
Stamattina presto papà mi ha fatto giocare all'aereo sul letto: mi ha sollevato in aria più volte tenendomi per i fianchi e mi ha fatto atterrare sulla sua pancia. Ci siamo divertiti tanto e poi ci siamo addormentati insieme. Abbiamo chiuso gli occhi e abbiamo dormito per un'altra mezz'ora. Insieme...
Ieri ho sentito mio fratello chiedere a mio padre: "Papà, noi staremo sempre insieme, vero?". E lui lo ha rassicurato: "Certo, cosa ti fa pensare il contrario?". Però nella sua voce ho avvertito qualcosa di simile alla debolezza, un calo del tono, una perplessità e una tristezza di fondo. Sono sensazioni, le mie, che non so dire ma che in ogni caso avverto.
Per me l'eternità è adesso. E' qui, fra le pieghe del letto. Fra le braccia di papà, nelle pause fra un sonno e l'altro. Nei miei sorrisi.

mercoledì 9 marzo 2011

Manuale d'uso: la danza

E' notte fonda quando inizia la danza e succede ogni volta che comincio a svegliarmi: appena inizio a muovermi, a contrarre e a distendere gli arti, a emettere i miei tipici urletti, papà mi prende alla svelta in braccio, cercando di prevenire il pianto imminente e dirompente, mi solleva dalla culla e mi mette sul suo cuscino, la testa contro la sua e il ciuccio ben assicurato in bocca. Il suo scopo immediato è di farmi riaddormentare prima che sia troppo tardi, ovvero prima che io esploda in grida inconsolabili. Il suo fine ultimo è invece quello di ritardare le mie poppate, allungando i tempi di attesa fra le une e le altre. 
E così, ogni due ore circa e ogni notte, io e papà balliamo sul letto una danza la cui coreografia è la seguente: io sputo il ciuccio e lui me lo ridà; io giro troppo il volto verso il cuscino e lui mi rimette in posizione semi supina; io gli faccio un sorriso inatteso e anche lui - vinta a quel punto la stanchezza - mi sorride. 
Il tutto si protrae sempre per almeno un'ora, cioè finché papà non cede e mi prepara il latte. 

lunedì 7 marzo 2011

Manuale d'uso: l'urlo

Molto tempo fa, prima che nascessi, papà aveva un cane di nome Skipper. Era un incrocio - mi ha raccontato - fra un segugio e un cirneco, di taglia media e dalla corporatura snella. Aveva un bel colore ruggine, un petto carenato da corridore e due orecchie pendenti, che sventolavano a ogni movimento della testa e che, durante la corsa, si appiattivano contro il cranio. Però il suo tratto distintivo non era l'aspetto fisico, ma il carattere: Skipper era un cane nevrotico, capace di parlare - non solo di abbaiare - con chi lo sapesse ascoltare. Non obbediva mai e papà non se la prendeva con lui per questo, perché aveva capito che la sua era una natura da spirito indipendente, se non addirittura ribelle, e che quindi non c'era niente da fare. Papà - mi ha confessato - un po' lo ammirava per come era fatto e lo rispettava come si rispetta ogni creatura libera.
Se c'era qualcosa che voleva, Skipper urlava come un ossesso. Se papà lo rimproverava, rispondeva risentito con una serie di guaiti. Se papà - a quel punto per gioco - aggiungeva qualche altra parola, Skipper si mostrava in grado di mandarcelo, con un semplice sbuffo. In queste discussioni con il suo padrone il cane voleva sempre avere l'ultima parola. Inoltre, era spesso dispettoso, lagnoso per un nonnulla, irascibile con qualsiasi altro cane di sesso maschile e ovviamente con tutti i gatti possibili e immaginabili. Ce l'aveva con i motorini e i preti ed era un razzista che odiava tossicodipendenti ed extracomunitari. 
Papà potrebbe narrare mille episodi in cui Skipper si è distinto per le sue doti, ma ciò di cui voglio parlarvi io è un'analogia fra il mio modo di urlare e quello del suo cane. E ve lo voglio raccontare perché di recente ho sentito dire a papà - testualmente - che "non serve a nulla gridare" e che "le cose si possono chiedere con calma". Beh - fatemi dire -, non è la stessa cosa e non è vero che con la gentilezza si ottiene tutto. E' urlando con la massima forza che ho nei polmoni che io vengo accontentato, quando ho fame, quando ho sonno e voglio essere cullato, quando ho caldo, quando ho male alla pancia, quando ho sporcato il pannolino, quando voglio stare in braccio. Proprio come faceva Skipper, che con un paio di abbaiate era in grado di mettere in fuga cani ben più grandi di lui e che con qualche guaito riusciva a ottenere tutto ciò che voleva da mio padre. E se ci riusciva lui... 

giovedì 3 marzo 2011

Manuale d'uso: il naso

Il naso non serve soltanto per respirare. L'ho capito grazie a quello di papà, che lui utilizza per tenermi fermo il ciuccio quando dormo con lui nel suo letto, con la testa appoggiata sul suo stesso cuscino. Succede spesso che mi cada e che lo perda nel sonno: questo fatto mi fa svegliare, arrabbiare e piangere e costringe i miei genitori a correre ai ripari, a notte fonda, cercando di recuperare nell'oscurità il ciuccio, che spesso va a finire in posti improbabili e talvolta lontanissimi dalla mia bocca, compiendo traiettorie inimmaginabili. 
A volte viene rinvenuto ai miei piedi, altre sotto il cuscino, altre ancora per terra. Di qui la decisione: dato che tener fermo il ciuccio, a lungo, con la mano, sarebbe un'ipotesi improponibile, anche perché la presa si allenta necessariamente se si vuole anche dormire, papà ha pensato di utilizzare il suo naso, che è un po' più stabile, all'uopo.
E così, da qualche giorno, mi addormento con la faccia di papà schiacciata contro la mia e con quest'ultima immagine nei miei occhi: le sue palpebre abbassate, sfocate per la troppa vicinanza al mio sguardo, e il suo respiro, che è quello di chi già dorme profondamente e che dà il ritmo al mio.

martedì 1 marzo 2011

Hai sbagliato papà hai ragione

Io piango la notte, quando ho fame o se mi fa male la pancia. Allora i miei genitori mi danno latte, bevande e sciroppi concentrati alla camomilla e al finocchio, fermenti lattici e gocce per i disturbi intestinali. Poi mi cambiano e mi rimettono nella mia culla. 
Se però non mi riaddormento subito, papà e mamma mi mettono nel letto con loro. C'è chi dice che sbagliano a fare così, perché mi abituo male. Qualcuno - poche persone per la verità - è invece favorevole a questo comportamento.
Papà dice che, stando vicino a loro, dormo perché mi sento più sicuro e amato e che non gli importa nulla delle teorie che un giorno affermano una cosa e il giorno dopo la smentiscono. A questo proposito mi ha letto un passo dal libro di Ian McEwan, Bambini nel tempo, che parla di alcune teorie accreditate sull'infanzia negli ultimi tre secoli:
"(Stephen) aveva letto dichiarazioni solenni sulla necessità di fasciare gli arti dei neonati per impedirne il movimento e i possibili danni; sui pericoli dell'allattamento materno e, altrove, sulla sua fondamentale importanza sul piano fisico e superiorità su quello morale; su come l'affettuosità e l'incoraggiamento possono nuocere al bambino; sugli effetti benefici di purghe e clisteri, severi castighi fisici, bagni freddi e, all'inizio del secolo, di costante aria pura per quanto rigido fosse il clima; c'era chi sosteneva che è bene controllare scientificamente gli intervalli fra un pasto e l'altro e chi, al contrario, invitava a nutrire il bambino ogni qualvolta ne manifestasse il desiderio; chi denunciava i rischi di prendere in braccio il piccolo ogni volta che piange - facendolo sentire pericolosamente potente -, e chi sottolineava i rischi dell'atteggiamento opposto, che causa un senso di pericolosa impotenza; l'importanza di una buona disciplina delle funzioni intestinali, con allenamento all'uso del vasino a partire dal terzo mese; la costante presenza della madre giorno e notte, per tutto il primo anno di vita e, altrove, la necessità di ricorrere a balie, governanti, asili nido statali a tempo pieno; le conseguenze fatali di una non corretta respirazione, il vizio di mettersi le dita nel naso e di succhiare il dito connessi all'assenza della figura materna; i vantaggi di un parto tecnicamente sicuro in sala chirurgica e quelli di partorire coraggiosamente in casa nella vasca da bagno; l'importanza della circoncisione e di una tonsillectomia tempestiva; e, più tardi, lo sprezzante abbandono di tutte queste tendenze di moda; la teoria che i bambini debbano essere lasciati liberi di fare tutto ciò che desiderano di modo che possano esprimere appieno la loro natura divina, e quella secondo la quale non è mai troppo presto per forgiare la volontà di un infante; i disturbi mentali e la cecità causati dalla masturbazione, e il piacere e il conforto che essa regala all'adolescente; come l'educazione sessuale passi attraverso riferimenti a girini, cicogne, fatine dei fiori e impollinazione o si acquisisca tacitamente o ancora si apprenda grazie a una schiettezza di termini meticolosa e brutale; il trauma subito dal bambino che vede i genitori nudi, e i cronici turbamenti alimentati da strani sospetti se li vede sempre e solo vestiti; gli enormi vantaggi connessi all'insegnamento della matematica a un bimbo di nove mesi". (Ian McEwan, Bambini nel tempo, Einaudi 1988, pp 76-77).